La verità è che ci vuole poco a creare un paradiso. Nessuno lavora più con gioia, nessuno sorride più.

Anche io ero così; avevo meditato e soppesato ogni singola decisione della mia vita eppure tutta quell’attenzione dove mi aveva portato? E allora ben venga una mossa avventata, una deviazione da questa autostrada che mi avrebbe portata dritto ad un matrimonio scontato, alla pensione in poltrona davanti alla tv e alla tomba, adesso è tutto così chiaro.

Questa è la nostra guerra per tenerci una cosa che è già nostra, forse è questa la cosa bella che mi chiedevi, papà.

“Io sono un fallito”

Una frase che frequentemente ci diciamo davanti allo specchio, ma che spesso ci vergogniamo di urlare ai quattro venti, abbiamo paura di mostrarci deboli.

Eppure chi ha guardato e chi guarderà questo film si renderà presto conto di come anche dei falliti, uomini essenzialmente deboli dinanzi a “poteri” più grandi di loro, trovano dentro di sé il coraggio di resistere e di combattere. In nome di cosa? Nel nome della libertà.

Non sarà la recensione di un film, ma credo fortemente che da qui si possa partire per una considerazione più ampia.

I fatti: un agriturismo in terra di camorra, cinque persone dichiaratesi “fallite” sequestrano uno ad uno i malavitosi che chiedono il pizzo in cambio della loro “protezione” e…resistono.

Fino a qui potremmo pensare che sia una delle classiche “commedia all’italiana”, una di quelle storie si…carine, ma la cui fine coincide con i titoli di coda.

Perché non prendiamo mai niente sul serio? Perché noi siamo così.

Perché noi meditiamo e soppesiamo ogni singola decisione nella nostra vita, perché siamo dei freddi calcolatori, perché abbiamo smarrito il senso della vita, il vero motivo che ci spinge ad addormentarci ogni notte sperando che la mattina dopo gli occhi si riapriranno su un mondo nuovo, un mondo guarito.

Nel frattempo? Nel frattempo stiamo lì, culo sulla sedia e telecomando in mano.

Siamo convinti che spetti sempre a qualcun altro, convinti che noi non possiamo essere gli eroi che raccontiamo ai nostri figli.

Nasciamo con le mani piene. Per questo da neonati stringiamo i pugni  perché abbiamo i doni più meravigliosi  che si possano desiderare, l’innocenza, la curiosità, la voglia di vivere.

[…]Siamo cresciuti con il mito del posto fisso, la carriera, il successo. Per questo ci sentiamo sempre poveri e inadeguati, stiamo scappando perché non c’hanno dato le armi giuste per resistere. E quando scopriamo che la nostra squadra del cuore non ci ricambia, che la nostra amica banca si ricorda di noi solo se andiamo in rosso, che il lavoro della nostra vita, la nostra vita la vuole tutta, ci sentiamo sconfitti. Ci sarebbe bastato poco, tipo avere dei sogni davvero nostri, partoriti dalle nostre ambizioni e non dalla riunione di una multinazionale. Tipo imparare a richiudere i pugni, come da neonati, tenere stretta in mano la nostra vita.

Siamo noi, la Giulia e quel coraggio che non ci appartiene più, ma nel quale speriamo.